
Scambiavo stamattina delle email col mio editore, Marco Battista. Parlavamo tra amici di cose relative a Waldemar, e di noi, e quindi di questa situazione.
Gli scrivevo che mi ero sempre chiesto come facessero le persone a vivere normalmente, nel 1938, nel 1939, e per chi non aveva le bombe addosso negli anni successivi, e che adesso sto vivendo la risposta a questa domanda.
Christopher Isherwood a Berlino negli anni dell’ascesa del nazismo apriva il suo primo scritto delle Berlin Stories con il celebre “I am a camera”.
La guerra non se l’è mai tolta di dosso, fino a “A single man”, scritto durante la crisi di Cuba e nel rischio di una terza guerra mondiale.
Come adesso.
Simile al 1938 e 39 il cicaleccio delle opinioni di dotti e sedicenti tali. Adesso però tutti i giornalisti e gli attori in campo fanno “narrazioni”, i social sono pieni di esperti e “narratori”, e anche il ruolo di essere una videocamera narrante da parte degli scrittori veri è polverizzato e svilito: tutti lo sono, tutti lo fanno, ansiosi di “personalizzare”, e tutto questo non costruisce coscienza collettiva.
Tra i 7 temi principali enucleati intorno alla lettura di Isherwood attorno a cui si svolgono le vicende del mio romanzo, e insieme al carattere stesso del simbolo di Waldemar, mai cone ora gli ultimi tre si mostrano come essenziali:
Morte
Guerra
Estraneitá
e che gli altri temi precedenti sono tutti lí compresi, abbracciati, avvolti, celati.
E la vita.
Waldemar, quello di Isherwood, insegna.